mercoledì 23 settembre 2009

da Kyoto a Copenhagen


8708 km separano Kyoto da Copenhagen.
Una distanza che in aereo sembrerebbe impercettibile, ma che i Presidenti dei paesi industrializzati non hanno ancora avuto l’ardire di percorrere, quasi come se fossero stati obbligati a farlo a piedi.
Il 1997 ha segnato la firma del primo storico documento sulla riduzione di emissioni perniciose, il famigerato Protocollo di Kyoto, entrato in vigore solo nel 2005, sottolineando la lentezza delle istituzione governative, quasi restie a “bloccare” il loro incessante sviluppo e la loro perenne industrializzazione, neanche quest’ultima fosse uno “status symbol” della modernità.
Nonostante tutto la domanda nasce spontanea, è davvero il Protocollo di Kyoto da considerarsi un successo? È si un passo importante verso una concreta presa di posizione su un argomento che riguarda da vicino tutti i cittadini del mondo, siano essi capi di Stato o semplici impiegati di ufficio. Tuttavia un trattato che non include i paesi più inquinanti e che fino a 2 anni fa non veniva ratificato neanche dalla Russia suona come una sorta di beffa, come se decidessimo di togliere della polvere da un mobile soffiandoci sopra.
Cina ed India sono state “esentate”, in quanto ancora considerati paesi in via di sviluppo. Ma è possibile equiparare la quantità di emissioni nocive di un paese come l’Islanda, nel novero dei paesi sviluppati, a quelle di una semplice provincia come l’Uttar Pradesh o quelle provenienti dalla zona del Delta delle tre gole?
Tutto in una bolla (di sapone però, almeno questa non inquina), nessuna misura concreta applicata, solo una specie di avvertimento, un’ammonizione, un invito, ma nulla di autoritario e di effettivo.
A 12 anni dalla stesura del Protocollo, l’intervento di Barack Obama si prospetta come un tentativo di diradare le nubi cupe che incombono sul futuro della terra. Il Presidente dello stato più inquinante e più imperialista del globo professa il suo mea culpa, ricordando al mondo che si rischia una “catastrofe”. È dunque questo un cambio di rotta vero e proprio? Potranno gli USA calarsi nella parte del paladino della lotta al surriscaldamento del pianeta e del cambiamento climatico globale?
Ma soprattutto, riusciranno a convincere i loro compagni di merende Cina ed India ad attuare contromisure adeguate?
A tal proposito ecco che arriva Hu Jintao, il riformatore per eccellenza del paese del Dragone, ebbene si, proprio lui che ha rivoltato come un guanto l’impianto dell’economia cinese e non solo, dando la spinta finale verso la globalizzazione. Proprio lui che ha permesso che sull’asse Pechino – Washington avesse luogo la spartizione dei proventi del commercio mondiale. A sua detta, anche la Cina adotterà provvedimenti tesi a diminuire in maniera decisive le emissioni di CO2, dicendosi d’accordo con il “New Green Deal” di Obama.
Tempo limite, il 2020. Cina ed USA, coloro che hanno l’onore di dividersi il 40% di emissioni dannose, si auto impongono un freno deciso al loro incessante sviluppo. Sarà così? Basterà il monito di Ban ki-moon?
Il 2009 come anno della crisi, ma anche l’anno della proliferazione nucleare incalzante in Iran e Corea del Nord, sarà finalmente arrivato il momento di focalizzarsi sulla questione preponderante per il futuro del pianeta? Se un segnale forte verrà da USA e Cina, questo ancora non è dato saperlo.
Tuttavia i potenti del pianeta siano ben certi di una cosa: piuttosto che pensare a come riprodurre all’infinito il petrolio o come desalinizzare l’acqua marina, il primo passo da effettuare è quello di sconfiggere quel temibile Leviatano che si chiama surriscaldamento globale.

Da Kyoto a Copenhagen, forse un sentiero è stato pian piano tracciato, sta ai grandi della terra dimostrare in quanto tempo e come lo percorreranno.

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